Dalla Terra Santa alla Cina fino a Fatima, il pellegrinaggio tra fede e bellezza

 

Una immagine della Madonna a Fatima
Foto: ORP

Che l’ Anno Santo della Misericordia sia stato poco “romanocentrico” è ovvio ed è stata la volontà del Papa. E questo certo non ha reso Roma città di intensi pellegrinaggi nel 2016. Del resto però senza l’ Anno Santo, tra paura del terrorismo e crisi economica, sarebbe andata molto peggio.

L’analisi è quella di un esperto di lungo corso del mondo dei pellegrinaggi: monsignor Liberio Andreatta, vice presidente ed amministratore delegato dell’ Opera Romana Pellegrinaggi.

Lunedì 30 gennaio si apre la XIX edizione del Convegno teologico pastorale dell’ Ora dedicato a Fede e Bellezza. Un serie di relazioni e testimonianze che vanno da Padre Rupnik, a monsignor Bruno Forte fino al vescovo di Spoleto- Norcia e all’architetto Paolo Portoghesi.

Due giornate per capire meglio anche il profilo del nuovo pellegrino.

Perché, spiega Andreatta, è cambiata la cultura del pellegrino, si è perso il senso della comunità e del gruppo e il pellegrinaggio si fa individuale. Del resto il fai da te è favorito dalla tecnologia e dal low cost, oltre che dalle crisi delle compagnie aeree tradizionali, ma certo il problema di fondo e la mancanza di senso della comunità  e l’individualismo crescente, tutto è più frammentato.

Le cifre parlano chiaro del resto anche sugli altri fronti classici del pellegrinaggio. In Terra Santa c’è stata una diminuzione del 30 per cento, in considerazione di tutte le difficili vicende politiche e sociali, ma anche a Lourdes sono arrivati il 30 per cento in meno di pellegrino e a Fatima il 20 per cento in meno.

Proprio per Fatima l’ORP lancia una campagna: 100 anni 100 pellegrinaggi.

Ma il catalogo dell’ Opera Romana rimane amplio e rivolto a parrocchie, gruppi religiosi, diocesi come tanti santuari in Europa ma anche nel mondo con gli itinerari missionari, e con le proposte italiane e romane.

Il punto top rimane la Terra Santa dove il compito del pellegrino rimane comunque quello del dialogo e della testimonianza di pace.

E proprio nei giorni scorsi in occasione della visita di Abu Mazen in Vaticano a Liberio Andreatta è stato dato un riconoscimento come già aveva fatto Rabin negli anni passati.

La pace passa per i pellegrinaggi che in Terra Santa sono sempre stati attori della storia dei popoli.

E la tecnologia ha spazio nel pellegrinaggio romano con la realtà aumenta per la visita al Carcere Mamertino e con la  bellezza della basilica della natività a Betlemme i cui mosaici sono stati recentemente riportati allo splendore originario.

E poi c’è la Cina. In Cina, dove i Pontefici sognano di andare, i pellegrini dell’ ORP vanno già. accompagnati da un francescano incontrano sia le comunità “ufficiali” legate allo stato che quelle fedeli a Roma. Anche i cinesi della chiesa ufficiale quando sentono parlare di  Roma si inginocchiano. E la gente non fa differenza accogliendo i pellegrini.

I temi sono molto del resto, dalla sicurezza in certe aree del pianeta, al biglietto per entrare in alcune chiese. Dibattiti che si faranno più vivi nei due giorno del Congresso e nella Giornata del Pellegrino il 13 maggio prossimo.

A Roma ‘I colori dell’Infinito’ di Luigi Tosti: a colloquio con monsignor Gervais

 

 

Una delle opere di Luigi Tosti

‘E Dio vide che era bello’: componendo una sinfonia creata dalle note della voce e da immagini che rendono possibile l’incontro tra terra, mare e cielo, finito e infinito, fiabe e realtà, silenzi ed esplosioni di luce, Luigi Tosti dà vita a un’esposizione cromatica coniugando le delicatissime tinte della vita alla Parola di Dio, quella stessa che resta custodita da secoli nel testo sacro della cristianità, la Bibbia.

La mostra, allestita a Roma nel Palazzo della Cancelleria Apostolica dal 10 al 18 febbraio dall’Associazione culturale ‘Tota Pulchra’ fondata nello scorso anno e presieduta da monsignor Jean-Marie Gervais, membro del Capitolo Vaticano e della Penitenzieria Apostolica, con la collaborazione di Mario Tarroni, direttore artistico, presenta per la prima volta al pubblico la mostra ‘I colori dell’Infinito’ dell’artista umbro Luigi Tosti. Accompagnando il visitatore nel lungo percorso artistico-creativo costituito da una serie di opere che annullano le distanze esistenti tra fotografia e pittura unite in una fusione armonica, Tosti abbatte i confini che separano realtà e sogno creando una terza dimensione di infinito, la fede: “Sono stato chiamato da Dio all’arte per raffigurare una vita senza più confini che dona candore, gioia, un senso di pace”, ha spiegato l’artista.

“Voglio incontrare il Papa – ha aggiunto – perché il mio è un nuovo progetto di evangelizzazione che si serve del meccanismo emotivo scaturito dall’arte per avvicinare l’uomo a Dio. Con l’arte si possono costruire tanti ponti di dialogo!”. L’artista, nella sua carriera, ha esposte le proprie opere a Madrid, a Parigi, ad Hangzhou, in Cina, ad Aalst in Belgio, a Seul, a Malaga, a Colonia, a Berlino, a Innsbruck, per arrivare a Cremona, Ferrara, Venezia e Perugia, ed ora a Roma.

Mons. Jean-Maria Gervais ci ha spiegato il significato della mostra: “Dal 10 al 18 febbraio prossimi presso il Palazzo della Cancelleria Apostolica avrà luogo la mostra di Luigi Tosti, ‘I colori dell’Infinito’, un titolo che ha proposto l’artista e condiviso a pieno, vista e considerata tutta la cornice che inquadra questo evento. Per prima cosa desidero sottolineare che oggi il mondo ha bisogno di colori, delle sfumature più diverse che tingano la realtà di celeste, verde, e di tutti i colori di nostra madre Terra che, lo vediamo negli ultimi tempi, spesso si ribella all’uomo perché poco rispettata e protetta. ‘I colori dell’Infinito’ si inserisce perfettamente non solo nella società contemporanea, sempre più frenetica e caotica, ma anche nei contenuti del pontificato di papa Francesco che ogni giorno insiste sull’apertura dei cuori a Dio, qui troviamo l’Infinito, e sulla custodia della ‘casa comune’, nostra madre Terra. Con queste morbide parole San Francesco definisce il luogo in cui è avvenuta la Creazione ed è su questa base che la mostra patrocinata dall’associazione culturale ‘Tota Pulchra’ da me fondata circa un anno fa, si propone di andare a finanziare, almeno in parte, l’inizio dei lavori di restauro del Sacro Tugurio di Rivotorto, la prima dimora del fraticello d’Assisi”.

L’arte contemporanea ancora cerca il desiderio di Dio?

“L’arte contemporanea è essa stessa espressione del volere divino perché seppur con molta umiltà l’uomo, proponendosi la realizzazione di un’opera, ripete il gesto del Padre, e cioè l’atto della Creazione. Creando qualcosa l’artista dà sfogo alla sua personalità, a sentimenti, emozioni, sensazioni, permette ai propri sensi di andare oltre la dimensione fisica dei corpi per plasmare opere spesso a propria immagine e somiglianza. Oggi, tuttavia, spesso assistiamo a opere che hanno poco di vero, di bello, ancor meno di sacro, ma l’Associazione, in questo senso, cerca di riproporre al grande pubblico un’offerta artistica che rievochi quell’incontro tra sacro e arte tipico di un tempo. Insomma, basterebbe passeggiare per i vicoli della nostra Città eterna per ritrovare quella ricerca spirituale del divino nell’arte su cui si soffermò anche il Beato Papa Paolo VI nel maggio del 1964 celebrando la Messa degli artisti all’interno della Cappella Sistina”.

Come si può coniugare l’arte alla misericordia?

“Alzando lo sguardo e soffermandosi su ogni singola opera architettonica di cui gode Roma. Se per un attimo alzassimo le nostre facce dagli Iphone capiremmo che oggi più che mai arte e misericordia si incontrano negli ultimi: ogni sera tornando dalla Cancelleria trovo sotto i portici o negli androni dei palazzi storici senzatetto, gente povera che cerca un riparo non possedendo una casa. Accade che l’arte e la storia offrono un primo aiuto agli ultimi dando loro asilo, abbracciando i loro corpi che cercano calore. Inoltre, misericordia è anche favorire l’arte e spenderla – attenzione a questo verbo ‘spendere’ – per giuste cause. Difatti, l’Associazione nasce proprio con questo scopo: soccorrere gli ultimi, coloro che hanno bisogno di una ruota di scorta per raggiungere la destinazione auspicata. Noi siamo questo: una ruota di scorta, un bastone da fornire a chi necessita di un supporto, abbiamo la stessa funzione del colonnato berniniano: accogliere e proteggere. Oltre all’accoglienza ‘Tota Pulchra’ col fare materno della Vergine Santa offre a tutti la possibilità di espressione e di dire ad alta voce ciò che pensa. Anche questo è misericordia, che certamente non finisce una volta chiuse tutte le Porte Sante del mondo ma inizia proprio quando i riflettori si affievoliscono”.

Vescovo muore e dona il corpo alla scienza. Paglia: che generosità

«Le ultime volontà del nostro vescovo erano che i suoi resti fossero donati alla ricerca scientifica». È stato lo stesso Francisco Pardo Artigas, attuale pastore di Girona, città cuore della cultura catalana, sede dell’aeroporto vicino a Barcellona, a dire in un comunicato ai fedeli della morte a Santo Stefano di monsignor Jaume Camprodon i Rovira, suo predecessore per i lunghi anni dal 1973 al 2001. Durante il funerale quasi surreale celebrato in duomo, in una delle regioni più secolarizzate della penisola iberica, la bara col suo corpo non c’era. La cripta preparata nella cattedrale per accogliere le spoglie dei vescovi titolari è rimasta chiusa. «Ho donato i miei resti alla sala di dissezione della Facoltà di Medicina di Barcellona» dice nel suo testamento. Dunque, il suo corpo lo ha regalato agli studenti di Anatomia. La Messa è stata officiata da Pardo, insieme a cardinali e vescovi della regione.

«Era cosciente che fin dal primo infarto che lo ha colpito anni fa, la medicina aveva fatto molto per lui – scrive Pardo nella lettera ai fedeli – e come ringraziamento, ha voluto donare il suo corpo per poter aiutare la ricerca in tutte le malattie». È stata la stessa diocesi «subito dopo la sua morte, a compiere le sue volontà». Il comunicato del vescovo è stato ripreso tal quale anche dalla Conferenza episcopale spagnola. Almeno ufficialmente, non ci sono state prese di posizione da parte di esponenti della Chiesa contro la sua scelta.

Camprodon aveva appena compiuto 90 anni, la sua scelta era contenuta nel testamento. Era un vescovo del Concilio Vaticano II, nel 2000 aveva chiesto pubblicamente perdono per il comportamento della Chiesa durante la dittatura franchista. Aveva fatto parlare di sé per l’invito ai fedeli a parlare solo catalano e c’è chi lo paragona a papa Francesco. Anche lui, come Bergoglio ha rinunciato all’appartamento papale, aveva rifiutato il palazzo episcopale. Rifiutò anche la Creu de Sant Jordi, prestigioso riconoscimento da parte del governo catalano.

I fedeli lo ricordano come un uomo molto semplice, nella sua ultima intervista ha detto che i suoi più bei ricordi da Vescovo erano le ordinazioni dei giovani sacerdoti. «Semplicità e affabilità erano abituali nel vescovo Jaume – dice di lui Carles Soler, un altro vescovo di Girona tra il 2001 e il 2008 – I suoi gesti e il suo modo di fare non erano mai clamorosi, non volevano attirare l’attenzione, ma erano sempre efficaci». Quest’ultimo gesto postumo è stato di sicuro clamoroso. Lo riconosce lo stesso Camprodon: «Se qualcuno si sorprenderà del destino delle mie spoglie mortali – scrive nel testamento – sappia che l’ho scelto come contributo alla società, dalla quale ho ricevuto tanto, e come gesto di comunione con il pane spezzato e condiviso al tavolo dell’Eucarestia». I funerali, come ha chiesto lui, sono stati semplici, e «senza elogi al defunto».

Vatican Insider ne ha parlato con monsignor Vincenzo Paglia, che proprio in questi giorni si è insediato, dopo la nomina di papa Francesco del 15 agosto 2016, nel nuovo ruolo di presidente della Pontificia Accademia per la Vita.

Quali sono stati i Suoi primi pensieri e reazioni dopo avere appreso la notizia della decisione di Jaume Camprodon i Rovira?

«Conoscendo la personalità del Vescovo si tratta di un gesto di generosità, da parte sua. La sua gratitudine per la guarigione si è trasformata nella scelta di dare un contributo per ulteriore ricerca scientifica, a favore di altri. Era stato aiutato a vincere un momento critico della sua vita. In questo senso quel gesto, secondo me, ha una sua valenza simbolica che non è da generalizzare, ma a cui guardare con attenzione. Esso mostra per un verso l’umanità di questo Vescovo e per l’altro verso si inscrive all’interno di questa sua esperienza particolare, che è quella che dà un valore simbolico alla sua scelta. Non vuole dettare una regola di comportamento generalizzato. Questo è bene sottolinearlo».

Un fedele potrebbe semplificare: «Dunque non dobbiamo farci cremare, ma possiamo donare il nostro cadavere agli scienziati»?

«Ripeto, siamo in una campo che direi è quello della esemplarità e della simbolicità. La Congregazione per la Dottrina della Fede ultimamente è intervenuta sul tema della cremazione per inquadrarla in una prospettiva umanistica, che mi sembra abbia ridotto di molto le contrapposizioni: ora è un tema assolutamente trattabile. Da parte mia credo sia importante però conservare una delicatezza in tutto quello che afferisce alla morte e ai suoi riti. In una società che vuole accantonare, dimenticare o esorcizzare la morte, io non manderei tutto in fumo: c’è un linguaggio, ci sono gesti, c’è una fisicità che sono importanti. Per chi piange il proprio caro. Questo linguaggio ci aiuta a comprendere anche il senso della morte del corpo, che va circondato con affetto e amore, come per secoli abbiamo fatto. La presenza del corpo della persona defunta ha un suo peso anche nel rendere i sentimenti concreti, storici, belli, profondi. La morte è stata circondata da un enorme pensiero di arte, di musica, di architettura che esprime questa necessità umana. Quindi non a caso nel testo della Congregazione per la Dottrina della Fede si considera la cremazione, sì, ma con la precisazione che non annulli il rapporto fisico e quindi la bellezza della presenza dei cimiteri nei luoghi pubblici, perché ci ricorda una comune prospettiva che è bene tenere presente. Di fronte ai tanti muri che costruiscono, a tanti fili spinati che si restaurano, io credo che un luogo dove non esistono muri e fili spinati è utile anche a capire come si vive, e non solo come si muore».

Questa vicenda del Vescovo spagnolo serve a migliorare il rapporto e il dialogo tra fede e scienza? E Lei, eccellenza, anche alla luce della scelta del Vescovo spagnolo, come interpreta invece il rapporto – meno “filosofico” e più pratico – tra fede e tecnica scientifica?

«Questa scelta del Vescovo emerito di Girona tocca un tema particolarmente delicato che è quello del rapporto dell’umano con la scienza e la tecnica, rapporto che sta assumendo nuovi contorni. Mentre in passato la tecnica poteva essere considerata uno strumento, oggi sta diventando una cultura diffusa e onnicomprensiva: in questa prospettiva un dialogo tra umanesimo e tecnica è indispensabile, purché e perché non se ne resti asserviti e quindi annullati in una logica che rimarrebbe solo tecnica. La tecnica per sua natura è senza anima, senza sogno, senza quel filo di mistero che è indispensabile per la vita umana. Non tutto può essere affidato alla tecnica perché altrimenti tutto sarà affidato al mercato, a chi ha i mezzi per sviluppare la tecnica e, alla fine, alla legge del più forte: guadagno, sfruttamento diventerebbero rischi sempre più forti. Ecco perché vita e morte legate dal mistero sono indispensabili. Per un progresso scientifico sempre rispettoso della centralità dell’essere umano, per un progresso scientifico davvero “umanistico” e non legge a sé stesso».

Il Pontefice l’ha scelta come Presidente della Pontificia Accademia per la Vita: quali sono le considerazioni e gli obiettivi per questo incarico?

«Il 2 gennaio è iniziata una nuova prospettiva per l’Accademia della Vita. Proprio nella sua istituzione l’Accademia ha scritto il suo mandato: è chiamata, rispetto alle grandi frontiere della vita e delle potenzialità e limiti che vanno emergendo in trasformazioni epocali, che si aprono con la tecnica, a percorrerle tutte. Ma proprio per poter individuare quella indispensabile prospettiva umanistica cui ho appena accennato. In questo senso il termine vita acquista un orizzonte largo, non si risparmia nessuna frontiera dell’umano, è di una vastità enorme, che va certamente da tutte le questioni che riguardano la biotecnologia, la bioetica, la robotica ma anche la vita intesa come sviluppo delle età dell’esistenza e quindi non solo dalla nascita, dalla fanciullezza, alla vita adulta e al prolungarsi inedito nella storia umana dell’età anziana, fino a temi poco esplorati: penso ad esempio al senso dei nove mesi di simbiosi di una madre col suo bambino e alle frontiere di espropriazione del cosiddetto “utero in affitto” e “maternità surrogata”. C’è poi tutto il tema della vita dell’ecologia umana, il rapporto con l’inquinamento, le prospettive di una giustizia anche nell’orizzonte della medicina. Pensiamo al problema della disuguaglianza nella distribuzione delle medicine, al mancato diritto alle cure che non è ancora avvertito come un diritto umano del XXI secolo. L’Accademia della Vita non è estranea a una riflessione da rinnovare sul tema di quello che distrugge la vita in maniera massiva, come le pandemie o la guerra, verso la quale sembrano cadute le barriere del rifiuto che si erano costruite nella coscienza uscita dalla seconda guerra mondiale. Guerra vuol dire eliminazione di bambini, di civili, di donne, di anziani, di vite umane brutalizzate e portate alla brutalità, fino alla distruzione della vita non solo umana ma anche biologica. Dovremo porci con serietà anche una domanda lanciata da don Luigi Sturzo a metà del secolo scorso. Se la guerra non vada messa anche ufficialmente “fuorilegge” dal pianeta, come la coscienza del mondo – pur non praticandolo – è arrivata a fare con la schiavitù e la tortura. Ecco questo mi pare l’affascinante e tremendo orizzonte che con la Pontificia Accademia per la Vita vogliamo affrontare e percorrere dialogando con tutte le culture».

Uma fonte no deserto: a festa de Santo Antônio o grande

18 Janeiro 2017

Em 17 de janeiro, em Nazaré, celebrou-se uma missa em recordação de Santo Antônio Abade. O santo egípcio do IV século foi um pioneiro da vida monástica.

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 Em 17 de janeiro, festa de Santo Antônio o Grande, em Nazaré, em uma igreja do século XVII a ele dedicada, celebrou-se uma missa solene, presidida pelo arcebispo maronita S. E. Dom Moussa El-Hage, e animada por muitos fiéis.
S. E. Dom Moussa El-HageArcebispo Maronita de Haifa e da Terra Santa“Este santo, que viveu no IV século, irradia luz ainda hoje e o fará para sempre, pois ele renegou a si mesmo e seguiu Cristo. Abriu um novo caminho na vida cristã, o da vida consagrada.”
O místico egípcio foi um pioneiro para o monaquismo cristão, pois, já no final do III século, resolveu dar todos seus bens aos pobres e se dedicar inteiramente à ascese e à oração no deserto. Seu estilo de vida gerou um movimento que influenciou a espiritualidade cristã ocidental e oriental durante séculos.
S. E. Dom Moussa El-HageArcebispo Maronita de Haifa e da Terra Santa“Na época de Santo Antônio existiam dificuldades materiais e perseguições: os cristãos deviam enfrentar todo tipo de desafio. Hoje na Terra Santa e no mundo inteiro precisamos de exemplos como o de Santo Antônio, de religiosos que sigam as pegadas desse santo. Aquelas dificuldades estão presentes ainda hoje e talvez ainda mais, por isso precisamos reforçar nossa fé.”
Ainda hoje atribuem-se muitas graças à intercessão do santo e por isso os cristãos da Terra Santa o recordam com afeto e devoção.
Pe. JOSEPH ISSA Pároco Maronita de Nazaré“Aqui em Nazaré há uma devoção especial por esse santo, pois ele intercedeu em muitas graças a quem o invocou, de modo especial a quem não tinha filhos e não tinha uma família completa, e, portanto, se dirigiu a Santo Antônio para que o ajudasse.”
TAMAM SULEIMAN LULUNazaré“Santo Antônio é muito importante para mim. Fiz um voto e vesti meus filhos como ele na sua festa. Agora os filhos deles usam por sua vez a túnica, pois temos muita fé em que ele nos vai proteger”.